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Paolo Becchi

Caso Toti, un discorso realistico sulla “corruzione”

di Paolo Becchi 10 Maggio 2024

Il punto che oggi sollevo mi attirerà un sacco di critiche, forse me le merito anche, ma consentitemi di esprimere quello che mi frulla per la testa in questo momento in cui la mia Regione, ma anche la mia città, Genova è travolta da uno scandalo di cui tutti parlano e parleranno ancora a lungo, perché siamo solo agli inizi. Sto ovviamente parlando degli arresti domiciliari del presidente della Regione. Non intervengo nella vicenda giudiziaria, ho già detto su questo sito quello che penso sulla decisione, a mio avviso, molto discutibile della necessità in questo caso degli arresti domiciliari.

Oggi vorrei invece fare un discorso schiettamente filosofico che può certo essere letto come una provocazione, ma che spero possa far riflettere. Non pretendo di aver ragione, anzi sono pronto a rivedere quello che scrivo se qualcuno mi farà osservare dove sbaglio. Ripeto, non ditemi che c’è il Codice penale e che questa è corruzione, perché il problema che pongo è un altro e precisamente il seguente: la corruzione in una sua forma debole come quella di uno scambio di favori tra il pubblico e il privato è dannosa all’economia, o non permette semplicemente di “oliare” il sistema?

Se la corruzione significa consentire agli imprenditori di aggirare lungaggini burocratiche, rendere più efficiente il loro lavoro, è di per sé un fatto negativo? Si dirà dipende da cosa vuol fare l’imprenditore. Ma in questo modo si accetta già l’idea che se il progetto fosse buono, mettiamo sia nell’interesse di una Regione o di una città, meriterebbe una “spinta gentile” per essere realizzato.

Delle due l’una. O accettiamo un’idea molto stretta di liberalismo per la quale il pubblico non deve mai intervenire nell’economia e allora si potrebbe evitare di principio la corruzione, oppure se ragioniamo nei termini di una democrazia interventista un certo livello di corruzione, un po’ di “mastrussi“ e “manezzi” come si dice a Genova, ci sarà sempre. Può piacere o non piacere ma questa è la realtà, la cosa semmai importante è che la corruzione non diventi sistema.

Il vero rischio della corruzione per il politico non è la galera, è la sua reputazione, e una volta ti hanno sbattuto sui giornali presentandoti come un mostro sarà difficile recuperarla. La corruzione può aiutare l’economia ma se il politico viene beccato con le mani nella marmellata la sua carriera è finita. Questo è l’altro lato della cosa.

Dulcis in fundo. Orrore per il “voto di scambio”, ma le elezioni politiche che altro sono se non sono un gigantesco voto di scambio in cui il politico ottiene voti in cambio dei benefici che si presume dovrebbe portare ai gruppi di persone che l’hanno votato?

Il piano di Mario Draghi

di Paolo Becchi 4 maggio 2024

L’ipotesi Mario Draghi alla Commissione europea è ormai una realtà. La guerra in Ucraina è destinata a durare per i prossimi dieci anni, a meno che Putin non decida di finirla prima, per questo ci vuole un uomo forte a Bruxelles che convinca tutti a continuare a mandare armi e soldi e di nascosto forse anche soldati.

L’accordo con Macron è già operativo, manca ancora quello con Scholz e poi il gioco è fatto. Certo, ci sono di mezzo le elezioni europee, ma diciamola tutta, pensate che le elezioni possano essere un ostacolo per Draghi? Ci sono volute elezioni per farlo diventare presidente del Consiglio?

Ma il piano di Draghi non finisce qui. Ci vuole qualcuno di estrema fiducia alla Banca centrale per governare l’Ue. Un uomo che sia la sua ombra e con il quale ci si una perfetta intesa, già sperimentata e che continua sia pure dietro le quinte tuttora. Suvvia, non avete capito di chi parlo? Ma è Giancarlo Giorgetti! A Bruxelles Draghi, a Francoforte Giorgetti. “Più Italia in Europa” lo slogan di FdI è dunque perfetto. Cosa volete di più ?

Ma Salvini ha già detto: mai più Draghi. In politica mai dire mai. E con Giorgetti piazzato alla Bce forse gli sarà difficile dire di no a Draghi a capo della Commissione europea. Vedremo, ma il piano c’è.

Dieci anni di guerra europea? È questo che ci attende?

di Paolo Becchi 3 maggio 2024

L’ultima decisione di Trump di appoggiare l’invio di armi in Ucraina sta significare che anche una sua eventuale rielezione non cambierà nulla. Gli Stati Uniti continueranno dunque a finanziare questa guerra almeno per i prossimi anni. Un accordo decennale di aiuti all’ Ucraina è già in programma. I 61 miliardi di dollari stanziati sono solo l’inizio. Insomma, un nuovo Afghanistan europeo è ora del tutto possibile.

Si potrebbe obiettare che l’esercito ucraino è ormai al collasso, la guerra è destinata a continuare anche se l’esercito ucraino dovesse crollare con truppe di mercenari che tra l’altro sono già operanti sul campo. Anche senza un intervento diretto della NATO la guerra, magari a bassa intensità, una guerra ibrida potrebbe continuare nella forma di guerriglia interna e di attacchi terroristici mirati in Russia ( e magari anche in Europa per consolidare il consenso).

Ora la domanda da farsi è: la Russia non farà niente, permetterà che questo succeda? Di fatto NATO e Stati Uniti hanno deciso di finanziare una guerra contro la Russia per i prossimi dieci anni, che mira ad indebolirla e a far crollare Putin. Chi non vede questo non vede la realtà.

La Russia starà a questo gioco? Non so rispondere a questa domanda, perché Putin a questo punto ha ormai solo una alternativa: se vuole evitare tutto quello che gli Stati Uniti hanno programmato può solo nel più breve tempo possibile radere al suolo l’intera Ucraina.

Meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine.

Ricordo di Camilla Canepa

di Paolo Becchi 04 maggio 2024

Il vaccino consigliato da Speranza per i giovani, viene ritirato dalla stessa azienda perché nocivo alla salute. È questa la notizia. In Liguria è morta a causa di questo vaccino Camilla Canepa. Ci sono certo altri casi, ma io ricordo questo perché mi colpì nella mente e come genitore mi ritorna spesso in mente. Ma i magistrati indagano i medici perché non l’avrebbero curata. Insomma il vaccino non c’entra. Anche se l’autopsia è stata chiarissima al riguardo. È morta a causa del vaccino. Il tutto solo per evitare qualsiasi indagine su Speranza. Sul banco degli imputati dovrebbe esserci lui. Una ragazza, un fiore della vita di diciotto anni, sana e felice, con un sorriso che non posso dimenticare, muore e il responsabile neppure viene indagato. C’è un morto, ma non c’è un colpevole di questa morte. Hanno giocato con la vita delle persone, lo sapevano, ma dovevano dimostrare che loro sono i padroni della vita e della morte. Hanno costretto le persone a vaccinarsi pur sapendo che potevano morire. E ora sono addirittura orgogliosi di quello che hanno fatto, presentano i loro libri e si lamentano se madri addolorate per le malattie dei loro figli esprimono tutta la loro rabbia, perché sanno che non ci sarà una nuova Norimberga per i loro crimini. Tutto questo è molto triste ma una cosa è certa #noinondimentichiamo

Verso il premierato. Il ddl Meloni-Casellati migliora, ma servono altre correzioni

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma il 26 aprile 2024

La commissione affari costituzionali del Senato ha terminato il suo compito e ora il ddl sul premierato arriva all’aula di Palazzo Madama. Il testo licenziato dalla commissione ha modificato, non di poco, l’iniziale ddl di revisione costituzionale che porta la firma di Meloni e Casellati. Il testo che l’aula del Senato adotterà – con o senza modifiche – passerà poi alla Camera dei deputati (prima in commissione e successivamente all’aula), che in prima deliberazione può sempre emendare il testo. Una volta che il ddl sarà approvato da entrambe le camere nel medesimo testo in prima deliberazione, non prima di tre mesi passerà alla fase della seconda deliberazione, dove Camera e Senato potranno solo respingerlo o approvarlo. In quest’ultimo caso serve almeno la maggioranza dei componenti in entrambi i rami del Parlamento.

Vediamo cosa prevede il testo su cui dovrà lavorare ora l’aula di Palazzo Madama.

Elezione diretta. La novità più rilevante rispetto all’attuale assetto istituzionale è l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, che durerà in carica per cinque anni e potrà essere eletto per non più di due legislature consecutive, elevate a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi. Rispetto al testo iniziale del ddl Casellati la commissione ha introdotto in sostanza il limite dei due mandati consecutivi. Correttivo opportuno. L’incarico di formare il governo resta nelle mani del Presidente della Repubblica, che tuttavia – come è giusto che sia – deve conferirlo al Presidente del Consiglio risultato eletto.

Sistema di elezione. La riforma prevede che il Presidente del Consiglio sia eletto contestualmente alle due Camere attraverso un sistema elettorale di tipo maggioritario; infatti, il testo prevede un premio di maggioranza su base nazionale per entrambe le camere (che garantisca la formazione di una maggioranza in entrambi i rami del Parlamento), pur nel rispetto dei principi di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche. Anche qui, rispetto al testo iniziale, c’è stata una modifica positiva, cioè è stata eliminata la costituzionalizzazione della percentuale fissa del premio, che il ddl iniziale individuava nel 55 per cento. Con le modifiche apportate, la determinazione del premio sarà di competenza del Parlamento.

Fiducia. Il Presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo dovrà ugualmente presentarsi alle camere entro dieci giorni dall’incarico per ottenere la fiducia iniziale. Nel caso in cui il Parlamento non accordasse la fiducia al governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica deve rinnovare l’incarico di formare l’esecutivo al medesimo Presidente eletto. Qualora anche in quest’ultimo caso il governo non ottenesse la fiducia del Parlamento, il Presidente della Repubblica deve procedere allo scioglimento delle Camere. Su questo meccanismo il ddl iniziale non ha subìto modifiche. Sul punto, riteniamo che il voto di fiducia iniziale da parte delle camere ad un Presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo sia un controsenso. Non a caso, come accade già da circa trent’anni per le elezioni amministrative e regionali, i Sindaci e i Presidenti di Regione – anch’essi eletti direttamente dal corpo elettorale – non necessitano della fiducia iniziale da parte di consigli comunali e regionali. Nelle esperienze internazionali, un caso su tutti va a nostro avviso preso in considerazione, ed è quello del Primo Ministro inglese. Nonostante non sia eletto direttamente dal popolo (nella sostanza è il leader del partito che ottiene più seggi), il Primo Ministro britannico non necessita del voto di fiducia iniziale da parte della Camera dei Comuni.

Scioglimento delle camere. A parte l’obbligo per il Capo dello Stato, come si è visto nel caso che precede, di procedere allo scioglimento di entrambe le camere qualora il Presidente del Consiglio eletto non ottenga la fiducia iniziale del Parlamento, il Presidente della Repubblica è obbligato a sciogliere le camere in altri due casi: quando glielo chiede il Presidente del Consiglio eletto dimissionario, entro sette giorni dalle dimissioni, e quando le camere revocano la fiducia al governo presieduto dal Presidente del Consiglio eletto. La commissione ha modificato il ddl iniziale attribuendo nella sostanza il potere di scioglimento delle Camere nelle mani del Presidente del Consiglio eletto. Il potere formale di scioglimento resta del Capo dello Stato, ma di fatto la decisione spetta alle camere stesse e al Presidente del Consiglio eletto. Una modifica condivisibile. Non era accettabile, dal punto di vista tecnico, che il Quirinale potesse conservare un potere sostanziale di scioglimento delle camere se il Presidente del Consiglio è eletto direttamente dal popolo e la maggioranza parlamentare è a lui collegata col sistema di elezione diretta. In sostanza è stato introdotto un meccanismo molto simile a quello inglese, dove il Primo Ministro chiede lo scioglimento della Camera dei Comuni e il Re vi procede.

Un nuovo Presidente del Consiglio. Qualora il Presidente del Consiglio eletto decida di non chiedere al Capo dello Stato lo scioglimento delle camere entro sette giorni dalle sue dimissioni, ovvero in caso di suo impedimento permanente o decadenza, il Presidente della Repubblica potrà conferire l’incarico di formare il governo – per una sola volta nel corso della legislatura – allo stesso Presidente del Consiglio dei ministri dimissionario oppure ad un altro parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio dei ministri. Un netto miglioramento rispetto alla formulazione originaria del ddl Casellati. L’eventualità che il Presidente del Consiglio eletto sia sostituito da un altro Presidente del Consiglio, è soggetta ad una condizione valutativa dello stesso Presidente del Consiglio eletto, che giudicherà l’opportunità o meno di lasciare Palazzo Chigi ad altro parlamentare della sua stessa maggioranza. Nel caso in cui quest’ultimo non ottenesse la fiducia iniziale delle camere ovvero si dimettesse, il Presidente della Repubblica deve sciogliere le camere. Le modifiche al ddl hanno di fatto attribuito una ragionevole responsabilità politica al Presidente del Consiglio eletto e alla sua maggioranza parlamentare, subordinando il passaggio di cui sopra ad una previa e necessaria valutazione politica. In altre parole, la maggioranza andrà avanti solo se vi saranno le condizioni politiche per farlo. In caso contrario, si andrà alle urne. 

Poteri del Capo dello Stato. Le opposizioni criticano la riforma perché sarebbero state limitate le prerogative del Presidente della Repubblica. I poteri del Quirinale sono stati ridimensionati solo in merito allo scioglimento delle camere e al conferimento dell’incarico di formare il governo, limitazioni sacrosante se si considera che il Presidente del Consiglio sarà eletto direttamente dal popolo. Il Capo dello Stato mantiene il potere di nominare i Ministri (e si aggiunge anche il potere di revoca), su proposta del Presidente del Consiglio eletto, esattamente come avviene dal 1948 ad oggi. Per noi, semmai proprio questo è un non senso. Per quale motivo un Presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo non potrà liberamente nominare e revocare i Ministri che vuole, dovendo necessariamente condividere ogni scelta – anche politica – con un Capo dello Stato che non gode della sua medesima legittimazione? La riforma introduce invece una novità in materia di controfirma degli atti del Presidente della Repubblica. Da settantasei anni a questa parte nessun atto del Capo dello Stato ha valore se non controfirmato dal Presidente del Consiglio o dal Ministro competente, che se ne assumono la responsabilità. La commissione ha modificato il ddl iniziale facendo proprio un emendamento di Marcello Pera,  sottraendo alla controfirma del governo i seguenti atti presidenziali: la nomina del Presidente del Consiglio dei ministri, la nomina dei giudici della Corte costituzionale, la concessione della grazia e la commutazione delle pene, il decreto di indizione delle elezioni e dei referendum, i messaggi al Parlamento e il rinvio delle leggi alle Camere. Un bilanciamento tra poteri che, alla luce del ridimensionamento delle prerogative del Capo dello Stato sullo scioglimento delle camere, fa da contrappeso ai maggiori poteri del Presidente del Consiglio eletto. Una correzione positiva. Inoltre, in modifica alla formulazione iniziale, il ddl cambia parzialmente il sistema di elezione del Presidente della Repubblica prevedendo che la maggioranza assoluta sia sufficiente dal settimo scrutinio e non più dal quarto. Una novità che mira a incoraggiare le forze politiche a convergere su un nome il più condiviso possibile.

Suggerimenti. Rispetto alla sua formulazione iniziale il ddl Meloni-Casellati è migliorato. Come si è visto, però, restano due nodi di non poco conto che il Parlamento deve correggere: 1) la nomina e la revoca dei Ministri, atti che a nostro avviso devono essere di prerogativa esclusiva del Presidente del Consiglio eletto; 2) la fiducia iniziale da parte del Parlamento al Presidente del Consiglio eletto: se eletto direttamente dal popolo, di quale ulteriore fiducia iniziale ha bisogno? Resta infine il rebus della legge elettorale. Le soluzioni sono due: un proporzionale con premio di maggioranza oppure un sistema retto in gran parte da collegi uninominali a turno unico, con correttivi idonei a garantire non solo la formazione di una maggioranza parlamentare, ma anche rappresentatività e minoranze. Insomma, sarebbe sufficiente riesumare il Mattarellum e adattarlo alle nuove necessità. 

Ps.

E poi bisognerebbe insistere nell’inserire, nel testo di riforma, il fatto che il Parlamento preveda una soglia minima di voti o di seggi perché trovi legittima applicazione il premio di maggioranza.

Caso Scurati, l’errore che non deve fare Meloni

di Paolo Becchi, 22 aprile 2024

Sarebbe stato meglio lasciare che la bolla del monologo si sgonfiasse da sola. E invece anche Meloni è caduta nella trappola. Il caso del generale avrebbe dovuto insegnare qualcosa, ma così non è stato. Pensate, ieri sera alla televisione tedesca più seguita a livello nazionale, ARD, la seconda notizia di rilievo era la censura operata dalla tv italiana nei confronti di uno scrittore da parte di un governo definito “postfascista”.

Un altro professore querelato dal presidente del Consiglio che sollevava lo stesso problema del fascismo o addirittura del neo nazismo di Meloni. Ora un’altra prof querelata da un ministro del governo molto vicino a Meloni per lo stesso motivo. Ok, ok, ok è solo una campagna strumentale e tra due giorni non ne parlerà più nessuno. E quando inizierà il processo ai due prof querelati? E siamo solo all’inizio. Sono piuttosto allergico a questo antifascismo che con Amadeo Bordiga ritengo sia stato il peggior prodotto del fascismo, ma consentitemi alcune riflessioni di real politik.

Prima delle elezioni politiche avevo suggerito un cambiamento simbolico: togliere la fiamma tricolore che arde dal simbolo del partito. Non ce n’è stato bisogno considerato il successo ottenuto alle politiche, si dirà. Ma come si vede il problema resta. E può sempre riaffiorare. E allora perché non fare una volta per tutti i conti con il proprio passato, perché tutti sanno che la fiamma rimanda al Msi e il Msi direttamente al fascismo, e togliere questa nostalgia del passato e guardare al futuro? Il Pci non esiste più da tempo, e la falce e il martello neppure, la Dc neppure e chi ora usa lo scudo crociato non ha alcuna influenza, persino la Lega non è più Lega Nord, non si vede proprio perché continuare ad usare quel simbolo. A meno che non si voglia ammettere che in realtà molti in FdI sono ancora fascisti. Nel caso sarebbe una bella occasione per fare un po’ di pulizie interne.

Meloni pare fregarsene, per usare un termine in sintonia, è forte del consenso che ha, mira ad un successo alle europee che tutti i sondaggi danno per scontato e quindi non cambia niente. Poi il premierato senza dialogo con le opposizioni e quindi referendum convinto di vincerlo. Posso dubitare su questo? Il premierato verrà fatto passare per uno stravolgimento della Costituzione antifascista e un ritorno al fascismo. Non lo è ovviamente ma l’argomento può far presa. Renzi andò avanti senza guardare in faccia nessuno e andò a sbattere proprio sul referendum. Non è detto che Meloni non faccia la stessa fine con la sua fiamma.
Nella società liquida anche il consenso è liquido.

Introdurre una soglia al di sotto della quale le elezioni non sono valide?

Le elezioni in Basilicata mostrano un primo segnale da non sottovalutare. Chi va oggi a votare è (di poco) la minoranza. Si dirà, è irrilevante: chi ha ottenuto la maggioranza di quella minoranza governa. Il discorso non fa una piega, perché in fondo si tratta di una minoranza consistente. Ma se quella minoranza che è andata a votare fosse solo il 10 per cento? E la maggioranza di quel 10 per cento fosse il 6 per cento? Lo so, non succederà, ma mi chiedo le elezioni sarebbero valide anche in questo caso? Portando il ragionamento all’assurdo basterebbero tre o quattro voti per fare un governo? Vanno a votare in quattro, tre votano x, uno y. La maggioranza è veramente schiacciante? Possiamo in questo caso ancora parlare di democrazia rappresentativa? Oppure dovremmo riconoscere che qualcosa non va? Qualcuno obbietterà se stai pensando all’astensionismo, ricordato che non paga. Non vai a votare, decidono loro per te. Lascia perdere tutte queste seghe mentali e dimentica Saramago: era solo un lucido romanzo. E vota, vota quel cazzo che vuoi, tanto non conta il tuo voto, conta solo che sei andato a votare. E tu alla fine vai ancora a votare senza sapere neppure perché, tanto il tuo non voto è del tutto ininfluente. Non ci credi più ma alla fine voti, con sempre minor interesse ma ancora lo fai. Sempre meno però … Già è tutto vero, ma mi chiedo: come esiste una soglia per dire che un referendum è valido o non valido, non sarebbe il caso di introdurre una soglia anche per le elezioni e dichiararle invalide se non si è raggiunta quella soglia? Questa mi sembrerebbe una opzione corretta. Voi cosa ne pensate?

Quale sistema elettorale per la riforma del Premierato?

Quale legge elettorale potrà adottare il Parlamento qualora la riforma fosse approvata in via definitiva?

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma 03 Aprile 2024

Vi invito a leggere queste proposte, che per quanto siano di carattere tecnico costituzionale, ci riguardano come cittadini. Alla luce del fatto anche che tali proposte, si stanno facendo strada all’interno degli apparati governativi, vista pure l’evidenza e la vetrina che il sole24ore mi sta offrendo negli ultimi tempi per tali argomentazioni.

La commissione affari costituzionali del Senato ha approvato in prima lettura il ddl di revisione costituzionale che prevede l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, presentato dal Governo a firma Meloni-Casellati. Il testo iniziale ha subìto alcune modifiche e probabilmente altre ne subirà nel prosieguo dell’iter parlamentare previsto dall’art. 138 della Costituzione.

Ora il ddl passa all’aula del Senato e poi, se approvato, alla commissione affari costituzionali della Camera e successivamente all’aula, dove avrà termine la prima deliberazione (il ddl deve ovviamente essere approvato da entrambe le camere nel medesimo testo). Trascorsi almeno tre mesi, il testo licenziato in prima deliberazione (a maggioranza dei presenti) dovrà essere approvato in seconda deliberazione da entrambi i rami del Parlamento (prima in commissione e poi dall’aula) quantomeno a maggioranza dei componenti di ciascuna camera. In seconda deliberazione il testo può essere solo approvato o respinto, senza modifiche rispetto al testo approvato in prima deliberazione. Giunti a questo punto, se entro i successivi tre mesi ne facessero richiesta un quinto dei componenti anche di una sola camera, oppure cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali, la riforma dovrà essere sottoposta a referendum popolare di tipo confermativo (senza quorum costitutivo). Se invece in seconda deliberazione il testo fosse approvato da entrambe le camere a maggioranza dei due terzi dei componenti (non è questo il caso), la riforma si intende approvata senza procedere a referendum.

Uno dei nodi cruciali della riforma è, a nostro avviso, quello del sistema elettorale con cui eleggere il Presidente del Consiglio e le Camere. La versione originaria del ddl Meloni-Casellati, come è noto, aveva introdotto in Costituzione un premio tale da garantire “il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere”. La cosa aveva suscitato più di una critica e, per questa ragione, il testo è stato emendato dalla commissione affari costituzionali del Senato eliminando quella percentuale numerica e inserendo in Costituzione soltanto il riferimento a “un premio su base nazionale”.

L’emendamento approvato conferma la costituzionalizzazione del sistema elettorale maggioritario (garantendo pur sempre la rappresentatività) e demanda alle Camere il diritto di scegliere i meccanismi elettorali ritenuti più idonei, ponendo come principio la necessità di dover garantire la formazione di una maggioranza solida in entrambe le Camere. Sarà dunque il Parlamento, se la riforma fosse approvata in via definitiva, a dettare le regole del gioco.

A questo punto ci si può porre la domanda: quale legge elettorale potrà adottare il Parlamento qualora la riforma fosse approvata in via definitiva? Le strade, secondo noi, sono due.

La prima. Nel sistema first-past-the-post, dove i seggi sono attribuiti ai candidati che – in ciascun collegio uninominale a turno unico – ottengono un solo voto in più rispetto agli altri, il premio di maggioranza potrebbe consistere nell’attribuire, alla lista che ha ottenuto più seggi, un ulteriore numero di scranni – che garantisca la maggioranza assoluta in entrambe le Camere – prendendoli dai migliori perdenti (cioè quelli arrivati secondi nei collegi uninominali) della lista medesima, fino al raggiungimento della soglia premiale stabilita per legge. Tecnicamente, per poter giungere all’applicazione del suddetto premio di maggioranza, i seggi assegnati col sistema first-past-the-post devono essere in numero inferiore a quelli di cui si compone ciascuna camera, lasciando che il numero dei seggi residui costituisca il premio di maggioranza da attribuire alla lista che ha ottenuto più seggi nel computo complessivo dei collegi uninominali. Nel rispetto della sentenza della Corte costituzionale n.1/2014, il premio di maggioranza troverebbe legittima applicazione solo se i seggi ottenuti dalla lista con più seggi fossero in numero non inferiore ad una soglia minima predeterminata per legge. Cosa accadrebbe se nessuna lista ottenesse la soglia minima di seggi tale da far scattare il premio di maggioranza? Si tratta di una ipotesi molto difficile da realizzarsi perché il sistema dei collegi uninominali a turno unico (secco, all’inglese) trasforma un sistema politico frammentato in bipolare. Sarebbe in ogni caso, a nostro avviso, da evitare il doppio turno di collegio, sistema che porta alla formazione di alleanze improbabili al secondo turno, alleanze che mirano a far perdere chi aveva ottenuto più voti al primo turno (le cosiddette alleanze ad excludèndum).

La seconda via praticabile è invece quella di un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza. Sul punto occorrerà tuttavia rispettare quanto statuito dalla Corte costituzionale non solo con sentenza n. 1/2014, ma anche con la n. 35/2017. In primis, il premio di maggioranza dovrà trovare applicazione in favore della lista o coalizione di liste arrivata prima, solo qualora questa abbia superato una soglia minima di voti predeterminata per legge. In caso contrario, non si potrà che procedere con la ripartizione dei seggi col solo sistema proporzionale. In secondo luogo, l’elezione dei membri delle Camere dovrà avvenire attribuendo all’elettore la facoltà di esprimere direttamente almeno una preferenza per i candidati, oppure attraverso i listini bloccati purché questi siano brevi ed i nominativi dei candidati siano espressamente indicati sulla scheda elettorale. Nodo ballottaggio. Per quanto concerne il sistema proporzionale con premio di maggioranza, si è visto che se nessuna lista o coalizione di liste raggiungesse una soglia minima di voti tale da legittimare l’applicazione del premio di maggioranza, la ripartizione dei seggi – per forza di cose – avverrebbe col sistema proporzionale puro.

Una ipotesi che mal di confà con l’elezione diretta del Presidente del Consiglio e con la necessità di garantire la formazione di una maggioranza parlamentare. Che fare allora? Una soluzione praticabile potrebbe essere quella di introdurre un secondo turno, vale a dire il ballottaggio tra le liste o coalizioni di liste arrivate prima e seconda nella contesa del primo turno. A tal riguardo occorrerebbe tuttavia rispettare quanto statuito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 35/2017, cioè consentire il secondo turno solo qualora al primo turno le liste o coalizioni arrivate prima e seconda abbiano raggiunto una percentuale minima di voti che ne legittimi l’accesso al ballottaggio.

Riteniamo possibili entrambi i sistemi elettorali, purché vengano rispettate le decisioni finora assunte dalla Corte costituzionale. Partire col piede sbagliato non converrebbe a nessuno.

Due anni di indagini sul prof del tweet “nazista”. Ma sulla Di Cesare i giudici dormono

Paolo Becchi, 17 marzo 2024

Vorrei ricostruire quello che è successo ad un prof con un curriculum eccellente: basta un tweet a scatenare il suo nemico che, essendo padrone incontrastato dei mezzi di comunicazione, intende distruggergli la reputazione per sempre. Anche se la ricostruzione della vicenda è particolareggiata vi prego di seguirla nei diversi passaggi sino al suo esito conclusivo. Ne vale la pena, credetemi.

Il 2 dicembre 2019 in seguito a questo tweet su Hitler: “Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri, che oggi vi governano dominando il mondo”, è iniziata una campagna diffamatoria da parte dei mezzi di comunicazione: telegiornale di Mentana, trasmissione televisiva dedicata al caso da Formigli in Piazzapulita su La7, tutti i giornali o quasi, in particolare quelli del gruppo Gedi. Il pugile dove essere suonato per bene. Il Rettore Frati di Siena, dopo aver prima dichiarato che “il prof. Castrucci scrive a nome proprio” cambia idea – la campagna diffamatoria aveva avuto il suo effetto – e annuncia “gravi provvedimenti” a suo carico da parte dell’Ateneo (sospensione dal corso e dagli esami, allontanamento cautelativo dagli studenti ecc.), preliminari alla richiesta di licenziamento che dovrà prima essere esaminata dal Senato Accademico.

Presenta inoltre denuncia alla Procura di Siena per “istigazione all’odio razziale aggravato da negazionismo”. La Procura di Siena fa allora partire l’istruttoria per il processo penale. Il prof avverte subito il pericolo imminente del licenziamento, gioca d’anticipo e chiede il pensionamento immediato. Una decisione rivelatasi saggia perché poco dopo il Senato Accademico dell’Ateneo di Siena decide per la pena massima della destituzione dall’insegnamento ma, visto il pensionamento ormai in corso, riconosce di non avere i mezzi per applicarla, cosicché la pena resta solo simbolica. Come che sia, una università ha deciso il licenziamento di un prof per aver espresso una opinione con un tweet. Pensaci un momento dai, anche se quel tweet ti fa venire l’orticaria (e a me la fa venire), si può arrivare a tanto?

Torniamo ora alla vicenda penale. Il Gip di Siena nega la richiesta che gli era stata presentata dalla Procura e dichiara che non ci sono le condizioni per procedere penalmente, visto che nel tweet in questione è presente semmai solo un giudizio positivo su Hitler e mancano gli elementi per configurare l’istigazione. La Procura di Siena però non molla, fa ricorso al Tribunale del Riesame, il quale la settimana successiva respinge la tesi del Gip e conferma l’ipotesi accusatoria della Procura. Il legale avvocato del Foro della Spezia fa trasferire nel gennaio del 2020 per competenza, in ragione del luogo della residenza dell’indagato, la causa penale da Siena a La Spezia, dove prosegue l’istruttoria. L’istruttoria dura per tre anni con diverse fasi presso il Tribunale della Spezia e si conclude a primavera 2023, con sentenza di assoluzione con formula piena “perché il fatto non sussiste”. Tiri a questo punto un sospiro di sollievo, ma dura poco perché nell’ottobre del 2023 la Procura della Repubblica, rappresentata da una pubblico ministero onoraria (!), si dichiara insoddisfatta dell’esito della vicenda e fa appello contro la sentenza assolutoria di primo grado.

L’appello si dovrà svolgere presso la Corte d’Appello di Genova, competente per territorio. Il 12 marzo 2024 la Corte d’Appello di Genova, formata da un collegio di tre giudici togati, conferma la sentenza di primo grado ribadendo l’assoluzione con formula piena “perché il fatto contestato non sussiste”. Ci sono voluti circa quattro anni per chiudere questa vicenda. Trascuriamo gli effetti psicologici (confesso che al suo posto probabilmente sarei morto di infarto o forse avrei richiesto il suicidio assistito in Svizzera) e pure quelli monetari, che per noi liguri hanno sempre una importanza non secondaria e domandiamoci una cosa: perché tutto è iniziato? Semplicemente perché il malcapitato è stato massacrato da tutti gli organi di informazione schierati a sinistra, mentre a destra se ne sono ampiamente fottuti.

Ora solo due parole su una recente vicenda. Una prof ben nota e protetta da giornaloni e televisioni fa un tweet che potrebbe essere interpretato quasi come una apologia degli assassini di Moro. L’ Università prende le distanze, ma la cosa a quanto pare finisce lì, i giornali la intervistano e i programmi televisivi quasi la giustificano. Bisogna aprire il dibattito. Non risulta che la prof sia indagata per apologia di reato, né che l’Università abbia preso provvedimenti nei suoi confronti. Beninteso, sono ben felice che sia finita così per lei, che ai tempi di Castrucci con un tweet aveva chiesto il suo allontanamento dall’Università. Le opinioni finché restano opinioni dovrebbero essere libere. Per parte mia trovo odiosi i reati di opinione.

Ma trovo ancora più odioso che ci siano alcune opinioni che sono reati e altre no, che insomma la libertà di espressione dipenda dal fatto che sei di sinistra e allora puoi dire quello che vuoi o sei di destra e allora la persecuzione è assicurata. Unica consolazione, alla fine per il prof è stata fatta giustizia, ma è una magra consolazione, costretto alla pensione anticipata, all’esposizione per anni all’odio ideologico e col portafoglio saccheggiato.

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